Atti degli incontri di Energheia

Atti dell’incontro: Guerre e giornalismo di ieri e di oggi

Com’è cambiato il mestiere del giornalismo nel corso degli anni e con i nuovi strumenti di comunicazione? A questa domanda cercano di dare un loro parere i giornalisti Maria Gianniti e Pietro Veronese nel corso di un incontro a Matera svoltosi il 9 giugno 2012.

Questo è il resoconto della serata.

invito GiannitiBuonasera a tutti e benvenuti all’incontro di questa sera organizzato dall’associazione culturale Energheia con due ospiti spessore: Pietro Veronese giornalista, inviato de La Repubblica e Maria Gianniti corrispondente esteri per la Rai, Radio 1.

Il tema che affronteremo è: guerre di ieri e di oggi, del come raccontarle; se il giornalismo abbia avuto qualche evoluzione nel corso di questi anni. E, ancora, come le nuove tecnologie aiutino o facilitino il mestiere dell’inviato in zone di conflitto.

Poche parole per descrivere i due ospiti che tratteranno di questi argomenti.

Maria Gianniti è giornalista Rai dal 1996 e dal ‘98 è inviata in luoghi diversi in particolare nel Medio Oriente e Nord Africa e da qui parte il suo punto di osservazione. La sua voce l’avrete ascoltata ai giornali radio delle tre reti Rai e nella trasmissione Baobab di Radio 1.

Pietro Veronese ha trascorso oltre trent’anni di attività al quotidiano La Repubblica, come inviato speciale, poi docente all’Università di Roma. Per entrambi è la prima volta a Matera. In un certo senso siamo riusciti a colmare un vuoto.

veronesePietro Veronese – Buonasera e grazie per l’ospitalità di questi giorni. Credo che noi tutti siamo stati ricompensati dall’incantevole spettacolo della città. Questa sera metteremo in risalto, nel corso della discussione, il nostro lavoro, quello dell’inviato speciale, che abbiamo fatto e facciamo ancora, da due diversi punti di vista, professionali e generazionali. Debbo dire subito che il nostro lavoro è molto cambiato nel corso del tempo e lo si denota anche dalle lamentele tra i giornalisti più anziani, del declino di questa professione. Le testate giornalistiche, complice anche la crisi, investono sempre meno nel tipo di lavoro che facevamo. Si va sempre meno in aree di crisi. Ieri eravamo a Potenza e nell’incontro con alcuni ragazzi di un liceo, uno studente ha riferito alcune notizie sulle vicende del delta del Niger che riguardano la popolazione degli Ogoni. Sono una popolazione che vivono in Nigeria, lungo il delta del fiume Niger, nelle cui terre c’è il petrolio, ma di cui, loro non ne traggono alcun giovamento. Anzi, aggiungeva come per ogni barile di petrolio che si produce, vengono sprecati otto barili di acqua, disperdendo immense risorse naturali del luogo. Una cosa ingiusta, a suo parere, e di cui dovremmo occuparcene di più. Mi ha molto colpito la conoscenza e la precisione del ragazzo. La sua gianniticonsapevolezza e la sua conoscenza non era avvenuta sulle colonne de La Repubblica, dove, credo che l’ultimo articolo sull’argomento risalga a qualche mese fa ed altri ad anni addietro. Da dove ha attinto quelle notizie? Dalla rete, da internet. Allora le notizie circolano! Io dico sempre ai miei studenti la seguente massima: i giornali muoiono, ma i giornalisti no. Il discorso del ragazzo di ieri è stato una conferma di questa mia convinzione.

Io ho iniziato a fare il giornalista agli inizi degli anni ‘80, mi sono occupato di grandi questioni dell’Africa del tempo ed in particolare del Sud Africa. Nel febbraio del ‘90, ero tra i pochi giornalisti presenti nel Paese che, dopo un decennio di grandi disordini, mobilitazioni e lotte, vedeva la liberazione dal carcere di Nelson Mandela. Se vado ai miei inizi e li confronto con quelli attuali, quello che differenzia quell’epoca, era la mancanza di sincronia, di contemporaneità, di velocità, d’immediatezza nella diffusione delle notizie. Quando ho iniziato a viaggiare in Africa, nel 1983, il mio primissimo servizio è stata una delle tante guerre dimenticate: la guerra del Ciad, in cui dei ribelli venuti dal Nord cercarono  di  raggiungere la capitale, difesa da forze francesi, per rovesciare il presidente – oggi contumace e fuggito in Senegal, accusato di feroci crimini -. In quel tempo, lo strumento principe di comunicazione dell’inviato era il telex, un brevetto italiano. Nel dettaglio era come una macchina da scrivere elettrica, in cui la tastiera era in Italia e i tasti a migliaia di chilometri e che utilizzava le onde elettromagnetiche delle linee telefoniche. Parliamo degli anni ’80, solo trent’anni fa. Non c’erano le linee telefoniche dirette e per avere una comunicazione telefonica, chiedevamo in albergo la comunicazione con l’Italia alle 8.00 di mattina e ti svegliavano alle 4.00 della notte. Ma questo non sempre riusciva. Quindi noi inviati contattavamo solo le redazioni via telex e si mandava il pezzo. All’imbrunire andavamo all’ufficio postale di Djamena, la capitale del Ciad. I tassisti si accampavano all’esterno ad aspettarci e noi eravamo dentro a scrivere i nostri pezzi al telex e c’era un funzionario del ministero, uno della polizia segreta, che passava tra le macchine, guardando quel che scrivevamo. Una sorta di censura politica preventiva. Parlava solo il africa10francese ed era in grado di intervenire solo sui corrispondenti di madrelingua francese. A noi italiani ci lasciava in pace, perché non conosceva la nostra lingua. Questo, in altri termini, erano le modalità di trasmissione delle notizie. Sembrano passati millenni, rispetto a quanto accade oggi,dove, prima ancora dell’articolo del giornalista, arrivano migliaia di twitter, attraverso internet, dai blog. Abbiamo conosciuto nuovi strumenti di comunicazione. I grandi conflitti odierni hanno creato nuove forme di strumenti di guerra, ma anche nuovi strumenti nel campo della comunicazione. Ogni epoca ha avuto il proprio canale di trasmissione delle notizie. Ad esempio, la II guerra mondiale è stata il trionfo della comunicazione, ovvero del giornalismo radiofonico; mentre la guerra del Vietnam si è caratterizzata come una guerra televisiva. Con le guerre del Golfo, negli anni ‘90 si è passati alla telecomunicazione satellitare. Oggi, nel terzo secolo siamo alle rivoluzioni su twitter, visto l’utilizzo del telefonino a portata di chiunque.

guerraQuesto aumento della connessione tra tutti gli umani, ha un paradossale rovescio della medaglia, rispetto ai tradizionali mezzi di comunicazione. Quanto maggiore è la facilità di comunicare, tanto maggiore è diventata nel corso di questi ultimi anni, la presenza d’informazione sui nostri sistemi di comunicazione dominanti. Nei grandi giornali e nelle grandi catene televisive si registra un costante declino dell’attenzione a queste parti lontane del mondo. Per questo motivo assistiamo ad un paradosso: quanto più diventerebbe facile informare da questi posti lontani, tanto più siano distratte e disattente le redazioni, che così non parlano e non informano i cittadini. Chi fa questo lavoro nelle redazioni, fa una battaglia sul fronte interno, nel convincere il caporedattore, i vertici del giornale, a investire denari su questo tipo di giornalismo che è pur sempre costoso, pensiamo solo ai biglietti intercontinentali, dove non ci sono compagnie low cost e quindi non c’è concorrenza sulle tariffe aeree; o ancora ai costi umani di queste operazioni, la pericolosità. Quindi è molto più facile comunicare oggigiorno e che informare. Ma la notizia c’è e la comunicazione della stessa ha preso altre strade e all’informazione viene richiesto, da parte dei cittadini, un ruolo attivo. Non è più il giornale che informa, bensì internet, dove è possibile informarsi, apprendere altre notizie che i giornali non riportano più.

armi2Maria Gianniti – Mi riallaccio alle ultime parole dette da Pietro Veronese. Partirei da un aspetto. Da una disattenzione che c’è in Italia sulla politica estera. È vero che c’è la crisi de giornali, degli strumenti di comunicazione, ma c’è anche un fatto: ovvero che l’Italia non segue particolari eventi internazionali con la stessa attenzione che hanno altri grandi Paesi nel mondo. Per noi che lavoriamo in questo settore, sfogliando i giornali francesi, inglesi, o guardando la CNN, si prova una grande frustrazione. I loro titoli non sono i nostri. Quando magari vi è stato un massacro in un paese della Siria, noi a volte sì, altre volte no, mandiamo il servizio in coda al giornale, cosa che non accade all’estero. L’informazione è cambiata perché più immediata, su qualsiasi argomento. Oggi con internet, con una parola chiave e su di un determinato Paese, si ha la situazione reale della cosa. Si ha solo l’imbarazzo nella scelta su quale informazione leggere su quel Paese e sul quell’argomento. Allora la domanda è occorre farsi è: Che cosa possiamo dare in più noi giornalisti? Come possiamo raccontare l’avvenimento, soprattutto noi che operiamo in Paesi che vivono un conflitto? Tra pochi giorni si voterà in Grecia. Come dobbiamo raccontare l’avvenimento, importante per il futuro dell’Europa? Questa è una lotta quotidiana per chi fa il nostro mestiere. E’ ancora importante andare di persona in questi Paesi? Io dico di sì, perché bisogna verificare di persona le notizie che possiamo acquisire tramite la rete o twitter e che, a volte rappresentano, a mio avviso, una grande ubriacatura. Questi nuovi strumenti sono importanti per noi sul campo, ma non sono sufficienti. Noi possiamo dare qualcosa in più andando sui posti, verificando sul campo la notizia.

Ho avuto la fortuna di assistere a un intervento al festival del giornalismo internazionale di Perugia, dove un responsabile di un network radiofonico che abbraccia tutto il Paese a stelle e strisce,  Eddie Corwin ha creato un network di tutte le comunicazioni via internet che provenivano dai Paesi del Nord Africa, ovvero i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Lui ha rappresentato una fonte di notizie per tutti i giornalisti che erano in quei Paesi, ma la sua rete era composta da persone che seguivano in ciascun Paese i singoli fatti e che lui riteneva affidabili. Da questo esempio emerge un fatto importante, che è alla base della nostra professione: Il contatto umano, il rapporto personale, il vedere con i propri occhi le situazioni. Per questo noi giornalisti che ci occupiamo di fatti diciamo che è importante andare nei posti, perché la storia che racconteremmo andando nei posti sarà diversa rispetto a quella che faremmo stando dietro un monitor, su internet, o leggendo le agenzie. A questo aggiungo i social network che sono diventati una fonte di informazione, ma molto spesso ci possono trarre in inganno. Porto un altro esempio che è accaduto nella recente rivolta avvenuta in Libia. Vi sarà rimasto impresso che alcuni giorni dopo l’inizio della crisi libica, improvvisamente, Al Arabia, una tv internazione pan-araba, ha cominciato a parlare di 50.000 morti ritrovati in fosse comuni, nei pressi della città di Tripoli. Ora, a mente fredda ci chiederemmo come si possano uccidere tante persone nel giro di pochi giorni. Eppure tutti noi, seppure usando il condizionale, ci siamo sentiti in obbligo di dare la notizia. Nessuno di noi ha messo in dubbio il fatto che la notizia fosse irrealistica. Questo fa capire come noi stessi siamo vittime di questa informazione così veloce ed immediata, come diceva Pietro Veronese prima, non supportata da alcuna constatazione e verifica.

armi1Prima accadeva che la redazione dall’Italia ti telefonasse e ti dicesse: l’agenzia sta dicendo questo, e spesso tu che eri nel Paese, dicevi, ma guardate che io questa cosa non la sto vedendo. È un problema questo che è capitato a noi che abbiamo seguito le rivolte arabe. È capitato spesso di essere a Piazza Tahrir al Cairo e che la redazione della Rai mi telefonasse dicendo che un’agenzia riportava una notizia di scontri o che qualcosa stesse accadendo. E tu, dall’altra parte del telefono, a smentire.

L’esempio che ho portato a conferma che i giornali hanno meno soldi oggigiorno rispetto a ieri, (una crisi più percepibile nella carta stampata). Per quello che riguarda la radio, credo che invece sia uno strumento di comunicazione agile, che attraversa tutti i cambiamenti e che per questo non morirà mai. Però a fronte di case editoriali che non hanno più soldi e non vogliono investire, ci troviamo a viaggiare sempre di meno e dobbiamo sfruttare sempre di più quello che noi definiamo il treno. Nell’ultimo anno, specie nelle rivolte in Medio Oriente e nelle primavere arabe, si è affermato il Citizen Journalism, ovvero un giornalismo fatto dalle persone come voi. Con la tecnologia odierna, ognuno di noi, con il semplice cellulare, lo Smartphone può mettere delle foto o immagini in rete. Questa è una fonte che diventerà sempre più importante per noi che facciamo questo giornalismo, però dobbiamo avere la possibilità di verificare, che tutto ciò sia veramente affidabile. E ci sono esempi a tal proposito, come la crisi Siriana. E’ la più difficile, perché il governo siriano ha vietato, fino ad oggi, l’ingresso alla stampa indipendente. Ora, con la presenza degli osservatori dell’Onu ha concesso qualcosa, ma è difficilissimo entrarvi e per seguire, tutto il fronte dell’opposizione, lo abbiamo potuto fare solo attraverso il materiale video che ci mandavano. In questa occasione abbiamo scoperto tantissime bufale. Noi stessi giornalisti siamo stati vittime della propaganda sia da una parte che dall’altra. Il nostro lavoro è fortemente condizionato dall’immediatezza della notizia che ci arriva, dalla crisi che c’è nel campo editoriale, però dobbiamo continuare a fare la differenza a dare il valore aggiunto che fa la nostra presenza sul luogo dell’accaduto, andando sul posto. È una battaglia da portare avanti. Il valore aggiunto di una persona è sempre qualcosa in più.

ASF_0012Un altro esempio di corto circuito dell’informazione è accaduto quando c’è stato in contemporanea un duplice evento in Africa: la fine dell’apartheid in Sud Africa con le prime elezioni libere e molta stampa internazionale lì presente; mentre in contemporanea si stava consumando il genocidio in Ruanda. Come sarebbero andate le cose se già nel 1994 vi fossero andati i giornalisti? Cosa sarebbe accaduto se in quei mesi ci fossero stati i social network a testimoniare la carneficina? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, forse, le immagini cruente avrebbero avuto un effetto sulla comunità internazionale, per fermarlo.

Un altro punto su cui vorrei soffermarmi è il passaggio da come si raccontava una volta a come si racconta oggi una vicenda. Oggi, abbiamo più strumenti, noi possiamo dare un valore aggiunto come classe di giornalisti. Dobbiamo difendere questi spazi ma con l’aiuto della gente che deve aiutarci e pretendere maggiore informazione.

 

Domanda_Voi avete fatto una distinzione tra due epoche diverse cosa c’è di comune per esempio?

 

Domanda_C’è mai una parte di connivenza tra quello che si scrive o solo la cronaca?

 

Domanda_In Italia ci sono poche pagine dedicate ai Paesi stranieri. Anche adesso parlando di Europa, si parla sempre di pochi Paesi. Perché si parla così poco? Perché si dà poca importanza a tutto il resto?

 

ASF_0058Pietro Veronese_Sulla questione credo che il cronista svolga un lavoro elementare che consiste nell’andare osservare e riferire. Questa legge quasi zen nella sua semplicità, è tutt’ora valida, nel fare giornalismo. Cambiano i mezzi di comunicazione, ma rimane la difficoltà dovuta a diversi fattori, ne cito solo due. Il primo è la grande quantità di notizie in circolazione, quanto maggiore è la quantità di notizie grezze presenti, tanto maggiore sarà il lavoro di setaccio delle stesse. Il lavoro di raffronto di ciò che si vede, con quello che è stato scritto dalle agenzie. E allora è difficile. Perché a Roma il redattore lontano ha una sola versione, mentre tu, sul posto hai diverse notizie e devi raffrontarle. Si tende troppo spesso a dare ragione all’agenzia e torto all’inviato. A volte può capitare il contrario, ma è anche meglio sbagliare che dare torto alla persona che avevamo mandato sul posto.

Un altro aspetto da sottolineare è il rapporto tra descrivere e non spiegare. Un altro articolo di fede del giornalista è che descrivere e spiegare sono la  stessa cosa. Nelle redazione si dice che il cronista debba stare ai fatti, che non è un analista, né un editorialista. Lui deve solo descrivere quel che vede. Poi, qualcun altro valuterà il fatto. Io penso che il giornalismo fatto bene contenga in sé la spiegazione dei fatti. Per comunicare bene io devo anche contestualmente dare la spiegazione del perché. Questo è una prerogativa del giornalismo scritto.  Credo, però, che molti miei colleghi non siano d’accordo con questa mia affermazione.

Anche qui c’è un’evoluzione, positiva e negativa. I primi reportage dai paesi africani erano di sette cartelle, talvolta a puntate. Ora, invece, quando mi fu proposto di accettare di parlare di Africa, mi diedero degli appunti di lavoro di venti anni prima, ovvero viaggi che si svolgevano per settimane. Oggi non esistono articoli a puntate e questo fa aumentare la selezione delle notizie, fa dire gli avvenimenti più importanti, meno noiosi, ma rende più difficile l’approfondimento. Perché c’è poca informazione estera? Perché per come sono fatti in Italia i mezzi di informazione, le scelte editoriali e l’uso dei mezzi di informazione sono utilizzati a fini di politica interna, per influenzare l’evoluzione della politica nazionale, per difendere alcuni a discapito di altri. E quanto meno, questo aspetto utilitario, ha causato questa introspezione del giornalismo che non è più aperto al mondo. Io non credo che non interessi a nessuno. L’esempio del settimanale Internazionale, molto letto e seguito, che non fa grandi profitti, ma è una sana azienda editoriale, dimostra il contrario, ovvero che c’è una voglia di conoscere.

ASF_0034Maria Gianniti_La professione dell’inviato continua ad essere importante per sondare il terreno e confrontarsi con la realtà del posto. Credo che negli anni non sia cambiato molto relativamente alle difficoltà di raggiungere fisicamente il posto. Per quanto riguarda la rivolta in Egitto, io non mi baso sul numero della gente, perché in Piazza c’era di tutto. Vi era gente che protestava, ma c’era nche gente che era indaffarata a svolgere i propri servizi durante la giornata. Noi come radio abbiamo un numero maggiore di ascoltatori ed allo stesso tempo uno spazio maggiore per fare analisi, per spiegare la notizia e non solo raccontarla. Quando tornammo dal Ruanda, dopo un reportage, a distanza di dieci anni del genocidio, il direttore della Radio mi disse: l’Africa è solo immagine e alla radio non rende.

Quando è cominciata la rivolta in Tunisia Radio 3 Mondo, il 20 dicembre 2010 ha dedicato una puntata giornaliera alla Tunisia, perché c’era stato un ragazzo che si era dato fuoco, azione che aveva dato vita ad una rivolta. Ascoltai la trasmissione, poi andai in redazione e dissi, guardate sta succedendo questo in Tunisia. Non accadde nulla. Il giorno dopo La Repubblica dedicò una pagina intera alla vicenda e dopo alcuni giorni, nei primi di gennaio, è esplosa la rivolta.

Oggi è arrivata una notizia dal Mali, dove è stato eletto, da poche settimane, una nuova presidente, impegnata sul tema dei diritti umani e che proviene dalla società civile. Ora, uno dei primi compiti della nuova presidente è di ospitare la riunione dei presidenti africani e lei ha detto che questo vertice non intende farlo, perché si troverebbe nel suo Paese Omar al Bashir, presidente del Sudan, che ha un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità Di solito i presidenti africani litigano per avere questi vertici in casa propria, per autocelebrarsi, mentre qui accade il contrario. Ecco questa decisione, molto coraggiosa, che meriterebbe un approfondimento l’ho trovata sul The Guardian,  ma non sui giornali italiani.

 

Domanda_Rispetto allo scollamento tra gli interessi politici internazionali e quelli sul campo, quali possono essere le difficoltà a raccontare la rivolta siriana?

 

Maria Gianniti_La difficoltà è enorme perché è difficile avere il visto per essere lì sul posto. Nei primi mesi della rivolta si poteva andare solo con un visto turistico, e si poteva solamente guardare ma non trasmettere. Dopo, quando si è esteso il conflitto si era più embedded, legati alle truppe armate. Io sono riuscita ad andare due volte in Siria. Nella prima ho potuto vedere ben poco e sono andata accompagnata rigorosamente dai responsabili del Ministero dell’Informazione, non ho avuto accesso lì dove c’era una battaglia violenta, nel Nord della Siria, per motivi di sicurezza, secondo loro. Questo perché continuare a raccontare la rivolta attraverso i video immessi in rete dai ribelli siriani, rappresenta solo un aspetto parziale della guerra, dietro cui si possono celare, spesso delle notizie non vere, delle bufale. La situazione è cambiata grazie all’arrivo degli osservatori internazionali che hanno fatto sì che il governo siriano non solo abbia dato qualche visto in più. Molti giornalisti stranieri, seguendo gli osservatori sono riusciti a raggiungere nelle città dove si sono consumate delle battaglie terribili. Abbiamo potuto vedere una città come Homs completamente distrutta. Una città fantasma. Pensate questa era la terza città della Siria. Allo stato attuale c’è qualche immagine in più che trasmettono i giornalisti, ma non c’è libertà di movimento per gli stessi. La situazione sta diventando sempre più pericolosa e sono pochi gli editori che vogliono rischiare, mandando i giornalisti.

 

Domanda_Si è parlato del vostro lavoro, raccontare ciò che vedete, la guerra. Ma voi raccontate la guerra con questo modo asettico, non vi viene la rabbia nel dover raccontare tanta gente che muore? Come lo vivete tutto ciò?

 

ASF_0020Pietro Veronese_Cerchiamo di rispondere attraverso la figura che l’inviato speciale è un osservatore, distaccato, non ha alcuna intimità con la gente. La sua scrittura deve essere intuitiva, non analitica. L’emozione è in gioco, è uno degli strumenti di lavoro. Nella mia parabola professionale è il motivo per cui ho rallentato un po’. Mi sono sentito logorato emotivamente da questo lavoro. C’è tanta paura. Ci sono stati momenti difficili che ho vissuto, non certo cercati, ma trovati. Tanti nostri colleghi hanno avuto problemi. Sono colpi che si parano, ma una volta che si accumulano si fa fatica ad affrontarli. Lo spettacolo della sofferenza è sempre brutto e tragico. Ho sempre rifiutato la definizione di teatro di guerra. Mi ha dato fastidio Io mi occupo di una parte di mondo dove le guerre ci sono, fanno parte del mio lavoro, ma ho sempre diffidato di quei colleghi innamorati dell’odore della polvere da sparo. C’era qualcosa che non mi convinceva in quelle persone. La guerra mi ha sempre fatto schifo, e la guerra è brutta. È uno spettacolo orribile. Non porta a nulla, se non alla sopravvivenza dell’umano attraverso questa negazione. Però, tutto ciò costa emotivamente. Questa esperienza si accumula nella vita e pesa nel bilancio complessivo.

 

Maria Gianniti_Vorrei aggiungere che anch’io rifiuto la definizione di teatro di guerra, noi facciamo gli inviati. Ricordo che due anni fa, c’erano  in Sud Africa i mondiali di calcio. Qui ho realizzato dei reportage per scoprire storie e poter descrivere attraverso queste le persone e il Paese. Credetemi, erano storie raccapriccianti e tristi, su malvessazioni e brutalità di ogni tipo delle tante anime del Sud Africa. Facevo fatica a riportarle. Credo che l’inviato in zone d crisi, debba essere a tempo. E’ un lavoro faticoso, molto spesso, stando in situazioni di pericolo, si perde di vista la situazione di pericolo, di crisi, che a volte si sottovaluta. Io stessa avevo sottovaluto un pericolo nell’ultimo mio viaggio in Siria. Per questo motivo il mestiere d’inviato di guerra diventa logorante e necessita di grandi pause. Non bisogna mai perdere l’umanità nella cronaca di un avvenimento, che è racconto ed emozione. Ognuno di noi nel momento in cu si trova a raccontare una situazione di conflitto, inevitabilmente immette le proprie emozioni.

 

Domanda_La prima domanda la pongo a Pietro Veronese: La razza africana quando manifesterà la sua superiorità?

 

Domanda_Poi la domanda a Maria Gianniti: Le vicende del Nord Africa e l’avvio della democrazia, quando si realizzerà?

 

africa1Pietro Veronese_Un giorno o l’altro bisognerà liberarsi dal perbenismo, e rendersi conto della superiorità degli africani. Questa frase l’ho scritta quando nasceva la Lega Nord, negli anni Novanta. Credo in quello che ho scritto e credo che i tempi siano maturi per attuare ancor di più questa mia idea. La grande lezione che l’Africa può dare al mondo è la sua capacità di vivere la scarsità. Far tesoro di questo. Al nostro mondo che ha scoperto che la crescita non è infinita, che ha cominciato a vivere con spavento la crisi, dico che dobbiamo imparare dagli africani. Noi ci dobbiamo imporre ad essere più ricettivi ed accoglienti nei confronti degli africani.

 

Maria Gianniti_Con la primavera araba è cominciata un’epoca. Noi abbiamo parlato di un evento. È solo l’inizio di un percorso. Credo che ogni Paese abbia i suoi tempi per l’arrivo della democrazia. Non saremo noi a dettare i tempi. Io sono andata a seguire le elezioni in Libia e in Egitto con file interminabili, con gente che votava per la prima volta. Si percepiva una forte emozione. Non sappiamo come andrà a finire, ma hanno iniziato un percorso. Se ci fossero state nel 2007 con un’Europa forte, forse avremmo potuto aiutarli di più. Ma chi può dirlo? A proposito degli stranieri, una delle scoperte fatte nel corso della primavera araba è stato l’elevato numero di cinesi presenti in quelle zone.  Ero in Tunisia quando era scoppiata la crisi libica e vi erano i cinesi che sono stati portati via con le navi, gli egiziani che arrivavano disperati, senza nulla con sé; e poi i bengalesi e poi gli africani, che erano in detenzione nelle carceri della Libia, che hanno raccontato  storie anche scomode per il nostro Paese. Spero che ci sia qualche canale della Rai che possa trasmettere un documentario, molto bello, dal titolo Mare chiuso di due giovani registi che sono andati in questo grande campo profughi al confine con la Libia, dove sono arrivati tutti gli africani (prevalentemente dell’Etiopia e dal Mali), tutti per prendere una carretta del mare e grazie al famoso accordo sui respingimenti erano stati mandati indietro e sono stati internati nei campi di detenzione. Con la caduta di Gheddafi, si sono liberati e sono scappati. Molti di loro sono ancora in Tunisia e non si capisce cosa faranno mai. Il mare chiuso, ricordo, contiene documenti e immagini inedite di respingimenti della Marina Militare Italiana, girati dagli immigrati e vi assicuro che una cosa è sentire parlare di questi problemi,  una cosa è vederli.